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di Andrea Villani (laboratorio Greit) e Gianni Bacarini (consulente agroalimentare)
tratto da “Molini d’Italia n. 6/22”
Ci sono traguardi di cui un Paese impara a non andare fiero. Ciò accade solitamente quando chi li ha raggiunti viene sconfitto dalla storia e quando il risultato viene sommerso dall’orrore che è conseguenza dell’errore.
L’Italia è stata autosufficiente nelle proprie produzioni di grano per un breve periodo a cavallo degli anni ’30 del secolo scorso. Fu l’esito della “battaglia del grano” che il regime fascista volle fortemente per ridurre un disavanzo commerciale insostenibile e affermare l’idea, velleitaria, di potenza europea. La “battaglia” ebbe in sé alcuni elementi di modernità in quanto basata sullo sviluppo e l’implementazione dei fattori produttivi – dalla genetica all’agronomia – più che sull’aumento del fattore terra, che pure venne perseguito con le ultime opere estensive di bonifica e il tentativo utopistico di fare concorrere all’exploit agricolo anche i territori del neo proclamato “Impero” africano. Da allora le cose, sotto ogni punto di vista, sono molto cambiate. L’Italia perse una guerra disgraziata, si risollevò grazie al lavoro dei nostri padri, al Piano Marshall e a una favorevole posizione strategica negli anni della “guerra fredda”. Visse il miracolo economico, un diffuso benessere e divenne tributaria dall’estero per una quota sempre crescente di materie prime.
Oggi, come noto, importiamo più del 50% del nostro fabbisogno di materie prime di filiera cerealicola, con una preoccupante tendenza all’aumento del deficit strutturale, che è ancora più marcato per le colture proteolaginose. Ci siamo distratti o abbiamo fatto delle scelte? Evidentemente è stato deciso che la vocazione produttiva non era prioritaria e abbracciato una visione di trasformazione in cui sono stati raggiunti risultati d’eccellenza.
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